mercoledì 18 febbraio 2015

APPELLO PER PADRE PUGLISI: SIA TRA I PATRONI DI PALERMO. PARTE LA CAMPAGNA DI ADESIONI



Il Beato Pino Puglisi sia inserito tra i patroni di Palermo. Dopo la beatificazione, da parte della Chiesa sarebbe un ulteriore passo avanti, un gesto simbolico per consegnare alle generazioni future un esempio concreto di santità. E poi pensate un po': per essere affiliati alle cosche si brucia l'immagine del patrono del luogo. Ce la farebbero i mafiosi a mantenere questo rito sacrilego con in mano una immagine di padre Puglisi sorridente? Con questo auspicio e questa provocazione si conclude questo straordinario e documentato saggio del professore Nicola Filippone, preside dell'istituto Don Bosco di Palermo e autore di numerose ricerche su padre Puglisi. Un contributo in esclusiva per il blog che state leggendo e per il quale lo ringraziamo di cuore. 
Il nostro blog e gli amici di padre Puglisi fanno proprio l'auspicio: la Chiesa dia un altro segnale e includa il caro 3P tra i patroni di Palermo. Chi vuole dare la sua adesione a questo appello può lasciare un commento qui sul blog o attraverso la pagina facebook "Beato Giuseppe Puglisi". 
(Francesco Deliziosi) 


di Nicola Filippone
preside dell'istituto Don Bosco - Palermo



1. Annuncio del Vangelo e promozione umana

Don Pino Puglisi, parroco palermitano ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, appartiene al numero dei grandi testimoni della carità che, nella seconda metà del XX secolo, hanno dato una straordinaria testimonianza d’amore pagando con la vita la loro fedeltà a Cristo ed al Vangelo.[1]
L'ordinazione di Pino Puglisi da parte del cardinale Ernesto Ruffini

Ordinato presbitero il 2 luglio 1960 dal cardinale Ernesto Ruffini, dopo diverse esperienze pastorali in alcuni quartieri palermitani e a Godrano, piccolo paese della provincia, il 29 settembre 1990 fu nominato dal cardinale Salvatore Pappalardo parroco a Brancaccio, il quartiere dove il 15 settembre 1937 don Pino era nato. Dopo il secondo conflitto mondiale Brancaccio era divenuta un’area industriale in cui ben presto la criminalità organizzata si era insediata per imporre il suo dominio, favorita da un certo degrado economico cui ben presto si aggiunsero anche quello culturale e morale.
Per conoscere bene la realtà del territorio il parroco Puglisi effettua subito un’indagine sociologica, con la collaborazione di alcuni studenti universitari, dalla quale risulta che “…L’ambiente è disomogeneo e la presenza della mafia è soltanto uno dei problemi. Certo non il minore, ma per molti la vera preoccupazione è riuscire a mangiare ogni giorno. Circa 150 famiglie arrivate dal centro storico si trovano concentrate in due enormi palazzi […] Stavano in case ormai inagibili, che crollavano a pezzi. Il Comune le ha fatte sgombrare e ha requisito questi due nuovi edifici. Le famiglie ora vi abitano ma si sono portate dietro solo la propria povertà. È una terra di nessuno. I bambini vivono in strada. E dalla strada imparano solo la lezione della delinquenza [...] Sulla via Brancaccio, tra due passaggi a livello, vi è una zona chiamata Stati Uniti. Qui la povertà è anche culturale: molti non hanno conseguito neanche la licenza elementare. Come parrocchia abbiamo cercato di fare dei corsi per questi analfabeti, ma certo il nostro sforzo non è sufficiente […] C’è inoltre povertà anche dal punto di vista morale. In molte famiglie non ci sono principi etici stabili, ma tutto viene valutato sul momento, in base alla necessità […] L’evasione scolastica è anche dovuta al fatto che Brancaccio è l’unico quartiere di Palermo in cui non esiste una scuola media. Chi vuole studiare deve sobbarcarsi lunghi spostamenti. Evidentemente questo fa comodo a chi vuole che l’ignoranza continui. C’è la scuola elementare, ma non c’è neanche un asilo nido […] In sostanza si fa prima a dire quello che c’è…tutto il resto manca”.[2] A due anni dal suo insediamento don Pino sottopone ai suoi parrocchiani anche un questionario da cui emerge che al 90,25% degli intervistati non piace niente del quartiere, che il 68,5% ritiene che esso sia sprovvisto di tutti i servizi, il 10,5% dei servizi ricreativi, l’8% dei servizi sociali, il 7,5% di quelli sanitari.

Questi risultati maturano nel sacerdote palermitano la convinzione di dover vivere il proprio ministero coniugando l’annuncio del Vangelo con la promozione umana. A tale scopo egli fonda il centro “Padre nostro”, che viene inaugurato il 29 gennaio 1993, col quale intende venire incontro alle esigenze della gente del quartiere, attraverso l’accoglienza e l’offerta di alcuni servizi di cui a Brancaccio non v’è traccia. L’accoglienza è rivolta a quanti sono in serie difficoltà (familiari di carcerati, ragazze madri, giovani vittime di abusi di ogni genere, ragazzi di strada) prima di essere adescati dalla criminalità. Tra i servizi spicca invece l’istruzione, che Puglisi vorrebbe concretizzare creando una scuola media nei locali di Via Hazon, sequestrati dopo il rinvenimento in essi di un arsenale della mafia. 
Il degrado degli scantinati di via Hazon in una foto degli anni Novanta

Fa riflettere l’idea di dedicare il centro non ad un santo o ad un benefattore, ma alla preghiera del Padre nostro. È probabile che la scelta sia scaturita dal desiderio di rilanciare la figura del padre in un contesto in cui essa era seriamente compromessa dai vissuti di molti parrocchiani. Chiamare Dio padre significava, di conseguenza, ricordare la fratellanza fra i battezzati e quindi proporre uno stile di vita nuovo, basato sull’amore e sul perdono piuttosto che sulla violenza e sulla faida. C’è anche un’ulteriore possibile spiegazione dietro la scelta del Padre nostro ed è la richiesta del “pane quotidiano” che in essa si presenta a Dio. Puglisi intendeva sottolineare da un lato che il pane è un diritto sacrosanto e non può, pertanto, essere chiesto in elemosina in cambio della propria dignità. 

“La parità, spiega egli stesso, significa uguaglianza di dignità, qualunque sia il ruolo che ciascuno abbia. Il ruolo in sé può essere più o meno importante per la vitalità di una comunità, ma la persona ha la stessa importanza dell’altra, la stessa dignità che ha l’altra davanti a Dio. Dio non fa distinzione di persone […]”. D’altro canto c’è un’accezione più profonda, teologica del pane che don Pino così spiega: “Ma pane anche nel senso di esigenza di una vita intellettuale, quindi il pane della Parola; ‘dacci il Pane della Parola’ […] Quindi, chiediamo a Dio che non ci venga mai meno la verità, l’amore degli altri, e l’amore nostro verso gli altri […] È per questo che viene detto: dacci oggi il pane, quello di oggi, non quello di domani o quello di dopodomani, daccelo oggi, e questo ci basta, perché sappiamo che ogni ‘oggi’ tu sei presente e quindi ci darai quello che è necessario, se noi siamo in comunione con Te, non verrà a mancarci ciò che è necessario per la nostra vita”.[3] Il pane che il parroco invita i fedeli a chiedere è dunque Gesù stesso, perché la povertà più grave di cui è affetta Brancaccio è quella di Cristo Signore. La rinascita del quartiere non può che iniziare dal recupero del Vangelo, che in quel luogo è quanto mai “lieto annunzio” di speranza e di amore. 
Ha scritto M. Naro: “Preferisco intendere i due termini come sinonimi, forzando la grammatica con cui è formulato il nostro titolo e trasformando la ‘e’ congiuntiva in una ‘è’ verbale: Pane è Vangelo. Non sembri una scelta irrispettosa dello spessore e della forza storica che la vicenda di don Puglisi ha avuto; non sembri un tentativo di ‘normalizzare’ la sua figura di lottatore, riducendo ciò che nella sua vita ha significato ricerca e difesa del pane entro una cornice spiritualistica, quella appunto del vangelo soltanto letto o peggio soltanto predicato […] voglio piuttosto dire che il pane – quando è pulito, quando è sudato, quando è onesto, quando è rispettato, quando è condiviso – è vangelo”.[4]
Il Vangelo si rivelerà ben presto l’arma più efficace contro la mafia, come risulta chiaramente dalle deposizioni degli assassini di padre Puglisi e dalla sentenza che li ha giudicati: “L’aggregazione sociale voluta da don Pino Puglisi, la pratica dei valori cristiani tradizionalmente opposti alla logica della violenza e del terrore di Cosa Nostra, quindi, rappresentava un consistente pericolo per l’organizzazione criminale, che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel luogo ove più forte era il suo radicarsi per consolidata permanenza”.[5]



2. Chiesa e mafia sono incompatibili

Col suo sacrificio don Puglisi ha definitivamente chiarito l’assoluta incompatibilità della Comunità ecclesiale con la criminalità organizzata. Fino ad allora alcuni uomini di Chiesa erano stati indotti a sottovalutare il fenomeno mafioso, per circostanze storiche che, a volte, possono convincere della loro buona fede. Il card. Ruffini, ad esempio, mantovano, giunto a Palermo nel 1946, era a tal punto intento a fronteggiare il comunismo, in linea col pontificato di Pio XII, da non accorgersi del male covato dalla società siciliana che, di lì a poco, sarebbe esploso in tutta la sua ferocia e spietatezza. L’arcivescovo arrivò addirittura ad esprimere pubblicamente un certo scetticismo sull’esistenza in Sicilia di una tale organizzazione malavitosa. Purtuttavia l’episcopato isolano aveva scomunicato i mafiosi sin dal 1944 e tale sanzione sarà applicata altre due volte nel 1952 e nel 1982.[6] Con l’arrivo a Palermo del card. Pappalardo, nel 1970, dopo il breve governo di Francesco Carpino, che era succeduto a Ruffini, si verifica una svolta fondamentale nella storia ecclesiale siciliana. Ai funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 5 settembre 1982, l’arcivescovo denunciò coraggiosamente le inadempienze dello Stato nei confronti del prefetto assassinato, al quale erano stati promessi dei poteri, mai conferiti. Tale uscita attribuì al presule la definizione di “vescovo antimafia”, che Pappalardo respinse sempre con fermezza, sostenendo che la Chiesa, per sua natura, non è mai contro qualcuno, ma, annunciando il Vangelo, dimostra di essere a favore della vita, e di opporre la cultura dell’amore alla forza bieca della violenza: “Contro questa mentalità mafiosa e contro la violenza della mafia, noi vescovi di Sicilia intendiamo opporre, ancora una volta e più decisamente, la forza disarmata ma irriducibile del Vangelo, una forza che è per se stessa rivolta alla persuasione, alla promozione e alla conversione delle persone, ma è nello stesso tempo intransigente nel non autorizzare sconti o ingenue transazioni per ciò che concerne il male, chiunque sia a commetterlo o a trarne profitto”.[7]
Padre Puglisi a Brancaccio col cardinale Salvatore Pappalardo. A sinistra Gregorio Porcaro, all'epoca viceparroco

Questa linea pastorale trova in Pino Puglisi la sua espressione più coerente e tragica, divenendo un esempio capace di scuotere non solo le coscienze della gente comune e riportando il sacerdozio cattolico alla primigenia configurazione, basata anche sull’offerta della vita e sul mescolamento del proprio sangue con quello di Gesù in croce. Il parroco di Brancaccio ha ridestato un certo clero siciliano, a volte assopito o distratto dinanzi alle prevaricazioni o alle ingiustizie compiute talora sotto i propri occhi. Sconcertante il contributo di A. Cavadi, che riporta un suo colloquio avuto con la sorella di un sacerdote, la quale “esprimeva il suo stupore dal momento che il fratello – dopo venticinque anni di attività pastorale – non era mai stato in alcun modo minacciato o disturbato. La guardavo stupito a mia volta perché non si rendeva conto, nella sua ingenuità, delle sue affermazioni. Come fare a non capire che la mafia ‘deve’ sopprimere le ‘anomalie’ come don Puglisi solo perché ci sono dieci, cento preti ‘normali’ come suo fratello?”.[8]
La presunzione di alcuni mafiosi di potere conciliare i loro delitti con il cristianesimo è passata spesso inosservata e in qualche caso è stata anche avallata da uomini di Chiesa. Mafiosi scelti come padrini o testimoni di nozze, uomini d’onore in prima fila nelle processioni o tra i benefattori di enti ecclesiastici o caritativi. La vicenda di un religioso che si recava nel covo di un latitante a celebrarvi l’eucaristia fu al centro di uno studio della Facoltà teologica “S. Giovanni” di Palermo, su richiesta del card. Salvatore Di Giorgi. Nelle conclusioni si affermava il diritto-dovere del sacerdote di riportare all’ovile la pecorella smarrita, ma si sottolineava anche la necessità di subordinare tale tentativo a dei concreti segnali di cambiamento da parte del peccatore e di non procedere ad oltranza, ma di limitare questi sforzi per evitare che una legittima azione pastorale, suscitando scandalo, diventasse una controtestimonianza.[9]
Il cardinale Pappalardo con padre Puglisi e i partecipanti a un ritiro spirituale.
La prima a sinistra è l'assistente sociale missionaria Agostina Aiello

Pappalardo ha contribuito a fugare per sempre il sospetto di ambiguità della Chiesa nei confronti di Cosa nostra e, dopo l’assassinio di Puglisi, il suo magistero ha avuto una figura autentica di sacerdote da additare ad ogni presbitero: “Puglisi rappresenta un’indicazione per tutti noi; il modello che ne deriva per il clero di Sicilia e per ogni vero cristiano è la sfida che lanciamo a chiunque gli competa! Se questa sfida dovesse bastare a giustificare per la pastorale delle nostre Chiese la qualifica di pastorale di frontiera, noi l’accettiamo, ma solo nel senso della duplice forza del Vangelo appena rivendicato e con l’invincibile speranza di una redenzione sempre possibile per tutti che da esso ci deriva”.[10]


3. Una concezione dilatata del martirio 

C’è una questione che ha animato un interessante dibattito tra i teologi e che ha avuto l’abbrivio da un celebre intervento di Giovanni Paolo II nella valle dei templi di Agrigento nel 1993, pochi mesi prima dell’assassinio di Brancaccio.
Padre Puglisi con Giovanni Paolo II durante una visita a Castel Gandolfo nel 1985

 Il Santo Padre definì allora alcune vittime della mafia “martiri della giustizia”, sostenendo una concezione dilatata del martirio. Tale espressione è già presente in un articolo di K. Rahner, pubblicato nel 1983 in Concilium, dal titolo Dimensioni del martirio. Per una dilatazione del concetto classico.[11] Secondo il gesuita da quando è invalso il principio della libertà religiosa, in occidente è estremamente raro che si verifichi un caso di martirio in odium fidei, pertanto bisogna estendere tale riconoscimento anche a chi muore lottando per le proprie convinzioni cristiane o a chi dà questa suprema testimonianza sebbene non gli venga richiesta. Questo punto di vista coincide in parte con quello di L. Boff, il quale parla anche dei “martiri del Regno di Dio”, includendo tra questi ultimi quanti muoiono “per la fedeltà alla verità, alla giustizia e agli imperativi della pace”.[12] È una tesi ispirata al “cristianesimo anonimo” dello stesso Rahner, che considera martiri anche coloro che subiscono silenziosamente e senza atti di particolare eroismo “il martirio della paura e della debolezza, del venire uccisi prima della morte, del venire cancellati e alienati mediante la diabolica raffinatezza dell’assassinio del corpo”.[13]
Di diverso avviso è il teologo H. U. von Balthasar che, temendo il rischio di un appiattimento del cristianesimo all’umanesimo, rilancia la cosiddetta “teologia della croce”, che tende ad una completa identificazione del martire col Figlio di Dio. Egli non “muore per una idea, sia pure la più elevata, per la dignità dell’uomo, la libertà, la solidarietà con gli oppressi (tutto ciò può essere presente e giocare un suo ruolo), egli muore con qualcuno che è già morto precedentemente per lui”. [14]
Nel caso delle vittime della mafia, allora, non si può procedere ad una indiscriminata collocazione di ognuna di esse nel novero dei martiri, sebbene tutti abbiano lasciato una luminosa testimonianza di coerenza, di attaccamento alla loro terra o al loro lavoro, di fedeltà alle istituzioni servite fino in fondo. Possono configurarsi come martiri soltanto coloro che hanno raggiunto una unione speciale con Dio, poiché quella del martire “non è semplicemente morte della libera libertà dell’uomo, ma svelamento della morte della fede. E pertanto la morte del martire è la morte del cristiano per eccellenza”.[15]


4. Un martire tra i patroni della città
17 settembre 1993: un'immagine dei funerali di padre Puglisi, ai quali parteciparono circa 8 mila persone
           
25 maggio 2013: una foto della beatificazione di padre Puglisi, alla quale parteciparono circa 80 mila persone
          
La beatificazione di don Pino Puglisi ci dà lo spunto per riflettere sulla sua morte e sulle ragioni che hanno indotto la Chiesa a considerarla un martirio.
            Innanzitutto la confortante presenza del Dio incarnato, che sostiene don Pino lungo tutta la sua missione e che il parroco di Brancaccio avverte con maggiore intensità nei momenti più drammatici. “Se Dio è con noi chi sarà contro di noi?” è la citazione che spesso ricorre nelle sue omelie e dalla quale verosimilmente traeva il coraggio di andare avanti anche dinanzi ai frequenti atti intimidatori subiti da lui e dai suoi più stretti collaboratori. “Il massimo che possono farmi, diceva a suor Carolina, è ammazzarmi. E allora?”.
W. Rodorf parla di un “paradossale conforto che il martire prova nelle pene: egli si sente come rinfrescato o diventa insensibile, come se fosse fuori del corpo”.[16] R. Jacob riprende questo tema spiegando che tra il martire e il Crocifisso si crea un’unione profonda che trascende quella che chiunque altro, sulla terra, è in grado di instaurare con Dio: “Essa è di una tale intimità che stabilisce una presenza particolare del Cristo nell’anima del martire e gli dona ugualmente la forza di sopportare tutte le avversità. Gesù Cristo vive e opera con il martire e nel martire”.[17]
La seconda ragione riguarda il rapporto interiore che padre Puglisi ha con la sofferenza, che dà senso all’esistenza dell’uomo. Ovviamente non si tratta di pessimismo romantico, quella cui allude don Pino è la croce che il Signore invita a portare per guadagnare la vita. In un campo scuola dal titolo “A che serve vivere” egli condivide con i suoi giovani questa riflessione: “può sembrare una cosa che atterrisce prendere la croce per essere discepolo di Gesù ma se noi vogliamo crescere, questa sarà la logica della gioia, se noi vogliamo restare immaturi, allora rifiuteremo la logica della croce, la logica del chicco di frumento”.[18] La morte, inoltre, quando conclude una vita offerta per amore, diviene l’espressione più alta e significativa della testimonianza: “dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza”.[19] Per questo Puglisi, pur essendo consapevole di ciò che l’attendeva, non volle mai una scorta, laddove altri sacerdoti, a Palermo, in quegli anni venivano inseriti in piani di protezione della pubblica sicurezza. Prima che i suoi killer gli sparassero egli, invece, accennò loro un sorriso e disse: “Me l’aspettavo”.
L’ultima motivazione concerne gli effetti che la sua morte ha avuto, innanzitutto sui carnefici e poi sulla società e sulla Chiesa siciliane. L’esecutore materiale del delitto fu Salvatore Grigoli, il quale, oltre a collaborare con la giustizia, mostrò inequivocabili segni di pentimento interiore da lui stesso ammessi ed attribuiti proprio alla serenità con cui la sua vittima affrontò la morte: “allorché il padre neanche si era accorto di me…e il padre, fu una cosa questa che non posso dimenticare, perché ogni volta che penso a questo episodio mi viene in mente questa visione del padre che sorrise…”. Evidentemente nessuno degli altri numerosi uomini da lui uccisi aveva reagito in questa maniera!
La vittoria del cristianesimo passa sempre per il sangue dei martiri, così Gesù ha sconfitto la morte ed il peccato, è crollato l’Impero Romano, è tramontata la Germania nazista, si è sgretolata l’Unione Sovietica, si potrà un giorno distruggere la mafia. 
La messa per il ventennale della morte di padre Puglisi, celebrata dal card. Paolo Romeo
il 15 settembre 2013  in piazzale Anita Garibaldi, il luogo dell'omicidio

È la forza rivelatrice dell’amore, destinata ad imporsi storicamente su quella della violenza e dell’odio, che fa di ogni martire – e di don Pino in particolare – un martire della carità “seppure esplicitamente motivata dalla fede”.[20]
La morte di padre Puglisi merita allora una collocazione più ampia di quella di un mero delitto di mafia, per avere accese le speranze in una vittoria della giustizia e della carità sulla delinquenza, in un riordino morale della società, in un ricupero del senso cristiano della vita, in una nuova evangelizzazione della nostra terra. Quest’aspettativa rifulge dalle parole con cui il cardinale Pappalardo ricorda il parroco ucciso, nell’omelia del 15 gennaio 1994, durante un’ordinazione sacerdotale: “Forse in questo momento della nostra storia, con gli angosciosi problemi che si pongono nella società civile come in quella ecclesiale (il degrado morale, lo sfrenato consumismo, la corruzione, la mafia con le sue sfrontate sopraffazioni e violenze, la secolarizzazione della società, la pratica scristianizzazione di tanti ambienti), abbiamo bisogno di sapere e vedere con quale metodo, con quale azione pastorale, con quali mezzi sia da affrontare tale situazione. La figura di Don Puglisi, umile, modesta, priva di ogni segno di esteriore sfoggio, ma carica di tutte le attribuzioni del buon Pastore, emerge per segnare quale possa essere oggi, nella nostra Palermo, la via per sconfiggere, attaccando alla radice la mala pianta che, sotto varie forme, invade e corrode il tessuto civile ed ecclesiale delle nostre popolazioni. La via di Puglisi è stata quella della evangelizzazione […] Da quest’azione, che è propria ed insopprimibile della Chiesa, cioè di tutta la comunità cristiana, scaturisce inevitabilmente la promozione di ogni progresso, la liberazione di tanti opprimenti mali, mafia compresa”. [21]    
Un'ultima considerazione, che è anche un auspicio: la beatificazione di don Pino rappresenta una tappa importantissima del processo di rinascita morale della nostra terra e della vittoria completa sulla mafia. Ritengo però che manchi ancora qualcosa: l’inserimento di 3P tra i patroni di Palermo e della Sicilia. Questo ulteriore passaggio suggellerebbe in maniera definitiva l’estraneità dei mafiosi dalla fede cristiana, anche perché risulta dalle dichiarazioni dei collaboranti che la “punciuta”, ossia il rito con cui si entra in Cosa nostra, avviene tenendo in mano l’immagine del santo protettore della città, mi chiedo come potrebbe un aspirante uomo d’onore, invocare l’aiuto di chi è diventato santo per avere combattuto la mafia!






[1] Il suo nome si accosta infatti a quello di padre Massimiliano Maria Kolbe, ucciso ad Auschwitz durante la seconda guerra mondiale o a quello di mons. Oscar Romero, assassinato in Sudamerica dalla guerriglia mentre celebrava l’eucaristia.
[2] Cfr: Archivio Puglisi custodito presso il Centro Diocesano Vocazioni di Palermo.
[3] G. PUGLISI, Campi estivi vocazionali, presso Archivio Puglisi …
[4] M. NARO, Pane e Vangelo: mistero e ministero nel martirio di don Pino Puglisi, in M. Naro, Teologi in ginocchio. Figure di spirituali nella Sicilia contemporanea, Provincia Regionale di Palermo – Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Monreale, Palermo 2006,, p. 272
[5] Sentenza Corte d’Appello di Palermo nei confronti di Graviano Giuseppe, Graviano Filippo, Grigoli Salvatore del 13 febbraio 2001.

[6] Lettera collettiva dell’Episcopato dell’1 dicembre 1944; decreto n. 171 del Concilio Plenario Siculo del 1952; Conferenza Episcopale Siciliana dell’ottobre 1982.
[7] S. PAPPALARDO, Messaggio Annuale del card. S. Pappalardo in occasione dell’Avvento, Palermo dicembre 1994.
[8] A. Cavadi, Psicologia e sociologia del martirio: nuove piste per una riflessione critica in M. Naro (Ed), Martirio e vita cristiana, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1997, 250.

[9] Cfr. C. NARO, La speranza è paziente. Interventi e interviste (2003-2006), Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2007, pp. 272-273. Rispondendo a Vittoria Prisciandaro che gli chiede quale debba essere l’atteggiamento di un prete rispetto alla richiesta di assistenza spirituale di un uomo d’onore, mons. Naro, richiamando il parere espresso dalla Facoltà da lui presieduta, risponde: “Se il sacerdote viene richiesto dei sacramenti in articulo mortis (se cioè il latitante sta per morire), il sacerdote deve andare, anche a costo di incorrere nei rigori delle norme civili. Se, invece, non c’è questo pericolo della vita, il sacerdote può andare, una volta, due volte, per sostenere ed accogliere la volontà di conversione del latitante che non può non comportare un’effettiva rottura con la cosca mafiosa ed un serio impegno di riparazione del male compiuto. Ma se il sacerdote dovesse registrare che non c’è una tale volontà e che, anzi, c’è un tentativo di strumentalizzare, è evidente che conviene che egli si sottragga a tale tentativo. Mi sembra che quel parere resti valido perché prudente ed equilibrato”.  
[10] S. PAPPALARDO, Messaggio annuale dell’arcivescovo in occasione dell’Avvento, cit..
[11] K. RAHNER, Conclium (1983) 18. Alla p. 28 si legge: “Anche quando è subita nella lotta per le proprie convinzioni cristiane, la morte suona come testimonianza della fede che poggia su questa risolutezza incondizionata che integra, per grazia di Dio, l’intera esistenza nella morte e che si esprime nella più profonda impotenza, interiore ed esteriore, che l’uomo pazientemente sopporta. Questo vale anche per una morte nel corso della lotta, perché il combattente, proprio come il martire tradizionale, soffre, nell’esperienza del suo fallimento esteriore, la potenza del male e la propria impotenza”.
[12]  L. Boff, Martirio: tentativo di una riflessione sistematica, in “Concilium” (1983)18, 36-37.
[13] K. Rahner, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio, Brescia 1965, 106.
[14] H. U. von Balthasar, Martirio e missione, in Nuovi punti fermi, Milano 1980, 259.
[15] K. Rahner, Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio, cit., 92.
[16] W.  Rodorf, Martirio e testimonianza, in “Rivista di storia e letteratura religiosa” 8 (1972), 252.
[17] R. Jacob, Le martyre, epanouissement du sacerdote des chrétiens dans la littérature patristique jusq’en 258, in “Mélanges de science religieuse” 24 (1967), 83.
[18] G. Puglisi, Che senso ha la mia vita? Itinerario vocazionale, 28. Trascrizione da registrazione audio, conservata presso Archivio Puglisi del Centro Diocesano Vocazioni.
[19] G. PUGLISI, Testimoni della speranza, relazione tenuta al convegno nazionale del movimento “Presenza del Vangelo”, Trento 22-28 agosto 1991.
[20] C. NARO, La speranza è cristiana…, cit. p. 48.
[21] S. Pappalardo, Omelia durante la Celebrazione Eucaristica per l’ordinazione sacerdotale, in “Rivista della Chiesa Palermitana”, (1994)4.

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